Sei Giorni Interregionale

Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e ritorno, per un totale di quasi 1.000 chilometri, ad una velocità massima di 40 km/h.

Quando ho raccontato della mia idea agli amici e ai conoscenti, alcuni sono rimasti indifferenti, altri sorpresi e altri ancora, i pochi appassionati di moto d’epoca che conosco, hanno sgranato gli occhi e non sapevano se ridere o se darmi della pazza.
Il mio meccanico Claudio ha detto: “Ma dove vuoi andare con quella caftera (caffettiera)? Al massimo arrivi dal rottamaio”. Scherzava, forse, ma le premesse non erano certo incoraggianti. Avevo deciso: volevo fare un viaggio di 6 giorni, in solitaria, con la mia Sertum 250 VL del 1950. Nessuno avrebbe potuto farmi cambiare idea, se la moto fosse arrivata funzionante al giorno della partenza.
Le persone che sono rimaste indifferenti alla mia idea sono coloro che non conoscono minimamente questo mondo. Chi è rimasto sorpreso sono stati gli amici, che non si sarebbero mai immaginati che una come me, che non ha mai dimostrato il ben che minimo interesse per le motociclette, figuriamoci d’epoca, potesse anche solo pensare di trascorrere le vacanze estive con una moto riesumata pochi anni prima. Gli appassionati di questi mezzi conoscono molto bene i rischi, anche troppo: pensavo che si possa rompere questo, quello, quell’altro e si possa rimanere a piedi in qualsiasi momento. In effetti, sono possibilità realistiche.

Ma quando qualcuno ha sollevato perplessità io ho sempre risposto: “La moto va, che problema c’è?”. La mia ignoranza mi ha preservata da qualsiasi pensiero negativo.

Quindi ero già partita anche solo con la mente. Desideravo tanto fare un salto nel passato, negli anni Cinquanta, in giro per l’Italia, tra le strade di campagna, fermarmi dove capitava e sentirmi a casa dai parenti lungo la strada. Ero una Don Chisciotte in gonnella, anzi, in sella, persa in un viaggio verso qualcosa che non esisteva, ma che era sul punto di esistere solo perché avevo cominciato a pensarci e a parlarne.

Avevo una missione: andare dal parmense in Piemonte, a trovare il mio amico Stefano Pracca e dei proprietari come me di Sertum, per raccontare le loro storie e far emergere un passato che non deve andare dimenticato, dove le moto d’epoca sono state un mezzo che ha trasportato emozioni di persone comuni, che hanno vissuto una vita semplice, in un contesto politico, economico e sociale che ci sembra lontanissimo eppure è così vicino a noi.

Per risultare credibile ai loro occhi dovevo presentarmi con la mia Sertum Mina, non avevo scelta. Così ho studiato il percorso e da un giorno all’altro ho deciso di partire.

Era la settimana prima di Ferragosto. Ovviamente ignoravo che fosse il periodo peggiore dell’anno per far viaggiare una moto d’epoca e dovevo sperare che Sant’Iligio, Santo dei Meccanici, non fosse in ferie pure lui.


Prima di partire

L’amico Armando, un giorno, mi ha chiesto se so cosa devo controllare prima di mettermi per strada. “La benzina” ho risposto. Si è messo a ridere, ma io dicevo sul serio. Sono rimasta a piedi due volte in un anno per la benzina. L’ultima volta ho spinto la moto al distributore e due uomini stavano dietro di me a piedi, senza dare cenno di vedermi. Mentre mettevo la moto sul cavalletto accanto alla pompa di benzina, uno di loro mi ha chiesto “Non va?” e io “No, senza benzina non va”. Poi lo stesso uomo ha iniziato a darmi consigli tecnici non richiesti e ha concluso il monologo dicendo che se fossi andata al mare sarebbe venuto con me. Gli ho risposto che stavo andando in collina e comunque non era invitato.

Ho comprato una giacca e una borsa da viaggio impermeabile da legare alla sella posteriore. Il mio amico Emanuele mi ha fatto notare che valgono di più i miei accessori che la moto. Audrey Hepburn disse: “Si dice che l’abito non faccia il monaco. Ma a me la moda ha dato spesso la sicurezza di cui avevo bisogno. Personalmente dipendo da Givenchy come le donne americane dipendono dal loro psichiatra.” Io dipendo da Mina, è lo spinterogeno delle mie emozioni.

Ero consapevole che dovevo viaggiare più leggera possibile e portare solo l’indispensabile. La prima cosa che ho messo in borsa è stata la piastra per i capelli, poi l’abbigliamento per 6 giorni, incluso un vestito di seta adatto a tutte le occasioni, tranne che a guidare la moto.

Il mio amico Alberto si è raccomandato di portare un kit di sopravvivenza per Mina. Chiavi dall’8 al 16, cacciavite dritto e a stella, pinza, candele in abbondanza, filo della frizione, filo dell’acceleratore e strumenti che ancora non so a cosa servano. Poi l’olio, uno straccio e ho aggiunto le salviettine profumate per pulirmi le mani in caso di emergenza.

La notte prima della partenza ho dormito poco, sentivo un po’ di timore. Prima di ogni viaggio provo sempre un po’ di paura, credo sia normale, è forse una forma di prudenza, che tiene in allerta verso il “nuovo”. Ho ripensato a tutto quello che stavo portando e mi serviva. Qualche giorno prima mio padre mi ha chiamata per dirmi se non era meglio che facessi un giretto in giornata e rientrassi a casa a dormire. “Lo sai che quando mi metto in testa una cosa non cambio idea. E poi cosa vuoi che sia? Vado a Torino e torno” ho risposto. Ma pure a me sembrava di partire per la vetta del K2. Ero pronta.

Partenza da Calestano, in provincia di Parma, destinazione Bobbio.
Lo spirito è sempre quello che mi ha insegnato Renato, un amico appassionato di moto d’epoca: “si parte, poi si vede dove si arriva”.
Ricordo che a una ventina di km da casa, mentre il sole d’agosto splendeva sulle colline parmensi e sentivo l’aria pulita della mattina sul volto, ho pensato “sta accadendo davvero, è fantastico”.

Salgo e scendo le colline, passo al cospetto del Castello di Tabiano, sbagliando strada un paio di volte e ritrovandomi nell’aia di qualche casa contadina. “Cominciamo bene” penso. Ma raggiungo la prima tappa: Salsomaggiore Terme. Parcheggio davanti alle meravigliose Terme Berzieri, il palazzo dallo stile liberty, ispirato all’arte orientale siamese, splendido esempio di art decò. Entro in un bar a fare colazione. Quando esco due uomini stanno guardando Mina. Io, come al solito, attacco bottone. Faccio conoscenza con Lino e Franco. Lino è un collezionista e restauratore di Guzzi. Franco è suo cognato e decanta più volte le cromature delle moto di Lino per farmi capire quanto risplenda la sua passione per le motociclette d’epoca.

Vorrei fermarmi a chiacchierare, ci sono sempre tanti argomenti da condividere con chi è appassionato di moto d’epoca, ma sono appena partita, non voglio fare tardi. Rimango concentrata sul mio traguardo giornaliero e accendo la moto sotto gli occhi sorpresi dei miei nuovi amici. Prima di partire faccio la spiritosa e chiedo a Lino il numero di telefono perché se fossi rimasta a piedi da lì a poco sarebbe stata la prima persona che avrei chiamato. Non cade nel tranello e per fortuna arrivo alla seconda tappa senza inconvenienti. Passando davanti al Castello di Castelnuovo Fogliani, raggiungo l’incredibile borgo medioevale raccolto su una collina della Val d’Arda: Castell’Arquato.

Mina mi proietta in un passato ancora più lontano. Castell’Arquato è un’immersione totale nei primi secoli del secondo millennio. La strada ciottolata arranca fino al centro storico: chissà che fatica salire, trainando i carretti o con il carico sulle spalle. Le architetture sono monolitiche fino al punto più alto del borgo. Nella piazza centrale i palazzi mettono soggezione da quanto sono imponenti. Sembra di entrare in un set cinematografico. Infatti qui sono stati girati diversi film, tra cui Ladyhawake con Matthew Broderick, Michelle Pfeiffer, Rutger Hauer. Eppure è tutto vero.
Una passeggiata tra il Palazzo del Podestà, la Rocca Viscontea, la Collegiata di Santa Maria Assunta, il Torrione Farnese, il Palazzo Ducale: con il naso all’insù, gli occhi si riempiono di meraviglia, fino al piazzale dov’è parcheggiata Mina.

Non posso perdermi, devo ripartire. Accompagnata dai campi coltivati e da casatorre nascoste tra strade secondarie, arrivo a Grazzano Visconti. Nel Borgo ci si trova nel Medioevo dell’epoca viscontea: logge, stemmi, merlature ghibelline, decorazioni lombarde. Il biscione che ingoia un fanciullo è su fontane, muri e colonne. La ricchezza dei dettagli distrae dalla verità: Grazzano Visconti non è un conservato, ma una perfetta riproduzione medioevale di inizio 1900, ricostruita sulle rovine di abitazioni di campagna e un castello.

Il caldo comincia a essere soffocante. Pranzo e riparto verso la verdissima Val Nure. A Bettola devo scollinare per raggiungere la Val Trebbia e qui arrivano le prime note dolenti, anzi bollenti. Mina soffre la salita e la temperatura d’agosto, il motore si scalda e la marcia rallenta drasticamente, al punto di dover inserire la prima per una leggera pendenza.

Ammetto di essere partita senza sapere esattamente in che condizioni fosse il motore. Un errore un po’ grossolano per chi si mette in viaggio con una moto d’epoca.

Dopo i primi lavori che hanno permesso l’avviamento – smontaggio del cilindro, adattamento delle sedi alle valvole, pulizia del carburatore – non ho indagato troppo su cosa fosse necessario migliorare.

C’è chi dice che andrebbe aperto il motore. Chi invece sostiene che è meglio non aprirlo se non ci sono delle oggettive necessità. Io nel frattempo mi sono messa in viaggio.

Mi preoccupo, non ho idea di quanta strada mi attenda prima di raggiungere il punto di discesa e nel dubbio di grippare, mi fermo sul ciglio della strada per far raffreddare il motore. Due minuti dopo passa un’auto, che rallenta e si ferma. Ma non sono interessanti a sapere se ho bisogno di aiuto, mi chiedono solo quanto dista Bobbio. Io non lo so e ho come l’impressione di essere in mezzo al nulla in una strada che non conosco. In quei minuti di attesa che sembrano un’eternità, mi chiama un amico conosciuto su Facebook. Sandro è di buon umore come sempre e mi dice di aver trovato tra i suoi documenti la bolla di vendita con i dati di motore e telaio della mia Mina. Il 23 giugno del 1949 la mia Sertum è stata ceduta alla Ditta Soragna, una concessionaria di Milano. Immagino la persona che quel giorno ha compilato i registri, mentre un’altra caricava la moto su un carro in Viale Certosa 226, a Milano, per spedirla verso il suo destino.

Mina ha ancora tanta strada da fare. Salgo in sella e dopo poco sono sulla strada stretta che scende verso Perino. Guido nei tornanti a motore spento. Il silenzio, le curve, l’assenza assoluta di auto, mi fa di nuovo sognare. A Perino mi sento vicino alla meta e raggiungo spedita (si fa per dire) Bobbio.

Scelgo di soggiornare all’agriturismo Torrione del Trebbia, arroccato su un cucuzzolo sopra al paese. Se l’avessi saputo prima, avrei risparmiato a Mina e a me quell’ultima fatica della giornata. Gli ultimi 300 metri hanno una pendenza che ho visto solo nel cartone animato “Wacky Races”. Come Clyde e la sua banda metto giù i piedi per spingere. Non basta. Devo scendere e aiutare Mina lasciando ingranata la marcia. È paradossale, non è Mina a portare me, sono io a portare Mina. Ma la soddisfazione è presto impagabile: mi rendo conto che siamo arrivate al traguardo.
Dopo il check-in mi sistemo e vado a festeggiare con un Trebbianino in centro a Bobbio, scroccando un passaggio al gestore dell’agriturismo.

Il luogo che mi accoglie per la cena e per la notte è un’altra scoperta temporale: i proprietari sono una coppia di collezionisti di oggetti d’epoca. Per l’estate 2017 hanno scelto un tema per arredare le aree comuni. Vassoi, insegne, lampade sono della Coca Cola e tutte vintage.
Il gentilissimo proprietario mi permette di parcheggiare Mina in garage. Vado a dormire, Mina è al sicuro, io sono felice.

Mi alzo presto. Faccio colazione in giardino con torte fatte in casa e una vista splendida su Bobbio. Mina mi aspetta. È il momento di ripartire. Scendo in paese e passo davanti a un distributore di benzina. Penso sia meglio fare rifornimento prima di visitare il centro e mi fermo al distributore successivo. Chiedo al benzinaio il pieno e se mi può aiutare a controllare il livello dell’olio. Confesso: l’olio non l’ho portato, era troppo ingombrante, ho dato più importanza ad altre cianfrusaglie, dando per scontato di trovarlo da un benzinaio. Lui mi dice che non vende olio da moto. Sto per entrare in confusione quando mi indica il distributore dall’altra parte della strada.

Raggiungo l’altro distributore. Il responsabile ascolta la mia richiesta e annuisce. Mi sembra di poche parole e io cerco di fare amicizia. Gli racconto che vengo dal parmense e che sono diretta in Piemonte, per conoscere persone che hanno la moto come la mia. Lui mi risponde che anni prima correva con il team Sertum, conosceva Franzoni, Ventura e Fornasari. “Wow!” esclamo. Lo riempio di domande. Scopro di avere di fronte Giovanni Perere, soprannominato il Signor Zundapp, uno dei concessionari più importanti d’Italia già negli anni ‘60, pilota e collezionista di mezzi da cross della casa motociclistica tedesca.

Mi presenta le sue splendide moto nel retrobottega del negozio di noleggio biciclette che gestisce a Bobbio con la figlia e mi mostra gli articoli che parlano di lui sulle riviste di settore. Come altri appassionati di motociclette d’epoca, mi dice di essersi stancato di sentire parlare di moto da chi non le conosce affatto: la maggior parte delle persone che bazzica questi ambienti sono sempre più presuntuose e interessate più al denaro che alle moto. Io mi faccio piccola, sono l’ultima arrivata e nemmeno ho portato l’olio con me dopo tutte le raccomandazioni ricevute. Giovanni Perere è un uomo sorridente e sereno, che non ha bisogno di sventolare la sua fama e le sue glorie per sentirsi qualcuno. Gli chiedo il numero di telefono per tornare a trovarlo e farmi raccontare di più sulla sua vita e sulle sue avventure con i piloti delle Sertum. Dopo averlo salutato, mi dirigo verso l’Abbazia di San Colombano per ringraziare il Santo di avermi regalato la benedizione di Giovanni Perere.

San Colombano è il protettore dei motociclisti, di impennate, pieghe e derapate. Nella cripta c’è una vetrata mosaico con il suo ritratto. Accanto a lui c’è S. Benedetto: lo prendo come un segnale personale e prego perché la mia Mina sia più accondiscendente nell’avviamento.

Dopo la foto di rito parto verso il Passo Penice. Ecco il mio K2. Sul monte sfrecciano potenti moto con i loro motociclisti, mentre io salgo a passo d’uomo. Il mio motore sembra la porta dell’inferno. L’alta temperatura e la mia bassa velocità, aumentano la mia preoccupazione.

A metà strada prima del passo mi fermo sul ciglio della strada e mi siedo in un campo. Un’auto si ferma. Scendono un italiano e due francesi. Mi chiedono di vedere la moto e se mi piace il panorama. Ammetto che la mia sosta non è così romantica.
Lorenzo, l’italiano, è un appassionato di moto d’epoca, ha una Guzzi degli anni ’70 che usa regolarmente tutto l’anno. Mi invita a prendere un caffè a casa sua, a 1 km di distanza, e io accetto volentieri. Suo figlio Martino ha 14 anni e sta sistemando una Vespa della seconda metà degli anni ’60.
I francesi sono parigini in villeggiatura. Uno di loro ha l’auto dal carrozziere: è finito nel fosso guardandosi attorno. Sono tutti molto gentili, ma Mina mi aspetta, insieme al Passo Penice.

Torno in sella. Parto nella speranza di vedere il prima possibile la vetta. Chiedo a Mina di tenere duro e mi rendo conto di abbassare la schiena per agevolare l’aerodinamicità della moto. A 10 km/h, arrivo finalmente sul passo, dove sono parcheggiate decine di moto, tutte nuove di zecca. Mina e io cerchiamo di passare inosservate. Qualche motociclista si avvicina a Mina, ma nessuno mi rivolge parola.

Riparto e la discesa mi porta a Varzi. Il paese è deserto e proseguo nella Val Curone. Il tempo si fa incerto.
A un certo punto incontro un vecchio edificio, sembra una vecchia fornace abbandonata da non troppi anni. Poco più avanti ho un miraggio: un mercatino dell’usato. Un ammasso di oggetti indefiniti e ordinati per corsie si affaccia sulla strada. Ci sono anche due motorini che ovviamente non conosco. Il proprietario si chiama Dino Davico e mi invita a visitare i 3 piani del suo negozio. Curioso. C’è talmente tanta roba che non so dove guardare. Fuori inizia a piovigginare e Dino mi offre un tè caldo nel suo ufficio, arredato con pezzi di modernariato che farebbero invidia a qualsiasi studio di design milanese. Un tempo il negozio era uno showroom di rivestimenti interni. Il mercato è sempre andato bene, ma poi ha cominciato a vacillare e Dino si è spostato verso altri affari. È sempre stato affascinato dagli oggetti vecchi e ha deciso di trasformare la sua attività in un mercatino.

Smette di piovere e mi rimetto in viaggio. La strada è pianeggiante e l’aria si è rinfrescata. Procedo regolarmente quando, a un tratto, una macchina è parcheggiata sul ciglio della strada e un uomo mi fa cenno con le braccia di fermarmi. Accosto e cerco di capire cos’è successo. Antonio mi aveva appena superata ed era incuriosito da Mina. Mi racconta di quanto ami le moto d’epoca ma sia stato costretto a venderle per questioni di spazio.

Mi rendo conto che le sorprese con una moto d’epoca sono dietro l’angolo anche quando la strada è lineare.

Arrivo a Tortona. Entro nel centro e parcheggio davanti al Duomo per la foto di rito. Si avvicina un ragazzo, che spinge una bicicletta vecchia… molto vecchia. La guardo con più attenzione: all’altezza dei pedali ha un piccolo motore. Si tratta di un Garelli Moschito 38-A (lo scopro solo perché mi viene detto e più volte ripetuto). Marcello ha 20 anni e si è scoperto appassionato di moto 5 anni fa. Oggi ha collezionato 36 mezzi, tutti sotto i 175 di cilindrata. Le sue moto le chiama mezzi da pollaio, li ha tutti tirati fuori dalle cascine nei dintorni di Tortona. Quando mi ha vista passare mi ha raggiunta per capire che accidenti di moto avevo.

Parliamo come se ci conoscessimo e non ci vedessimo da anni. Mi racconta che nella vecchia officina, dove ha imparato tutto quello che sa di meccanica, c’è un buco con un mucchio di moto cementificate. Lui stesso ha scavato con lo scalpello e ha visto con i suoi occhi due motociclette. Pazzesco. Quel luogo dovrebbe diventare un santuario per i motociclisti.

Riprendo il viaggio. Per arrivare a Cassano Spinola passo davanti all’outlet di Serravalle Scrivia. Ovviamente il mio istinto femminile mi impone di fermarmi. Entro nella boutique di Prada e chiedo alla commessa di mostrarmi dei beauty case. Mi risponde che ce ne sono di diversi colori. Le dico che ho un bauletto nero. Suppongo lei pensi al modello di borsa “bauletto”. Scelgo il mio acquisto in 2 secondi perché ho Mina fuori senza catena. Alla commessa non sembra vero di avere una cliente così veloce nel decidere e mi accompagna sorridente alla cassa, dicendomi quanto è versatile quel beauty case: è perfetto per contenere il make up, i documenti, le chiavi… e io “Sì, le chiavi”. Ma non ho il coraggio di dirle che intendo quelle inglesi, più cacciavite, pinza e candele.

A Cassano Spinola le mie cugine Valentina e Giuliana mi aspettano a braccia aperte. Qui mi sento a casa. La moto è in garage e non potrei chiedere nulla di meglio di una serata in famiglia, come in quei lunghi viaggi di una volta. Al secondo giorno mi sembrava di essere per strada da una vita e così lontana dalla mia quotidianità che il tempo aveva smesso di esistere.

Mentre facciamo colazione Giuliana mi chiede se ho guardato le previsioni. Io: “No, perché?”. Fuori c’è il sole. Scuote la testa e alza gli occhi al cielo, sperando che qualcuno da lassù si degni di proteggermi.

Parto in direzione Alessandria. All’orizzonte il cielo è scomparso. È coperto da una grande nube nera. Sembra enorme, schiacciante. Continuo per la mia direzione e la nube viene verso di me. Finché ci sono quasi sotto. L’asfalto è bagnato. I camion che mi sorpassano, mi ricoprono di una nuvola di vapore acqueo. Entro nella tangenziale di Alessandria e mi fermo su un cavalcavia per fare una foto al maltempo. Nello scatto colgo un intrepido vespista. Poco più avanti arrivano le prime gocce, costanti, che sembrano il preludio di un acquazzone tutt’altro che estivo. È il momento di fermarmi. Esco dalla tangenziale e mi rifugio al primo distributore di benzina.

Il bar è un buco, ma ben rifornito. Il responsabile prepara una merenda di focaccia e lardo agli uomini che lavano le auto nonostante il tempaccio. Si fermano alcuni clienti di passaggio, sicuramente più affezionati al personale, che sedotti dal locale.
Ascolto le loro chiacchiere mentre bevo un tè caldo. Ogni tanto esco per guardare il cielo e Mina. Lei mi sta aspettando, ma non mi mette fretta. È lì sotto la tettoia del distributore, così bella.

La nube grigia cambia forma ma non la zona. È a nord-est, in direzione Casale Monferrato, proprio la mia prossima tappa. Chiedo consiglio ai ragazzi del baretto: secondo le previsioni e il loro buonsenso dovrei raggiungere Torino passando da Asti. La strada è più veloce e sicura per il meteo. Casale invece è proprio sotto il nuvolone fantozziano. Oramai è troppo tempo che sono ferma. Devo ripartire e non posso fare a meno di continuare per il mio itinerario. È più forte di me. Salgo in sella a Mina e mi dirigo verso l’oscurità. Nella strada dritta che va verso nord l’aria è sempre più pungente e mi rendo conto che rincorro le nubi, che si allontanano, lasciando spazio a qualche raggio di sole sulla strada bagnata nel sali e scendi, tra Castelletto, San Salvatore e Occimiano.

Arrivo a Casale Monferrato ed è una giornata meravigliosa. Faccio rifornimento di Krumiri Rossi, tutti quelli che riesco a far stare in borsa, nella drogheria più antica d’Italia, con un bancone del 1764. Riparto verso la Val Cerrina, una strada circondata da colli appuntiti e fitti di vegetazione. Sulla strada incontro mille deviazioni, vorrei entrate in tutte le strade per esplorare ogni metro quadrato dell’area, ma il tempo è tiranno e voglio arrivare a Castiglione Torinese prima che sia buio. Mancano 60 km.
Su un’altura vedo un castello e non resisto: salgo a Murisengo.

Arranco sulle stradine ciotolate, mi fermo su un punto panoramico per fare una fotografia. Punto il cavalletto e sollevo la moto, ma manca un appoggio su due e Mina si sbilancia, non la tengo, mi sfugge e cade a terra in un istante. Sento il rumore di vetri che si schiantano a terra. Mi spavento. Reagisco. Prendo il manubrio e cerco di sollevarla, ma è un macigno troppo pesante. Alzo gli occhi per chiamare aiuto, ma non c’è anima viva. Il serbatoio perde benzina dal tappo e sento l’urgenza di fare qualcosa. Giro intorno alla moto, la prendo sotto il serbatoio e la sella posteriore, e ci metto tutta la forza che ho: riesco a sollevarla. Il fanale è andato in frantumi. Raccolgo i pezzi, li metto in sacchetto e li infilo nella borsa. Come se fossero una reliquia da conservare. In quel momento penso ai piloti della Sei Giorni, che dovevano arrivare al traguardo con tutti i componenti per non subire penalità. Il mio amico Rocco mi ha raccontato di una fotografia che testimonia la tenacia dei piloti: un partecipante gareggia tenendo un parafango sottobraccio.

Faccio un giro nel borgo antico. È silenzioso e deserto.
Riprendo la mia strada fino alla fine della Val Cerrina.

Su un lungo rettilineo mi sorpassa una Fiat Punto e il passeggero abbassa il finestrino per urlarmi qualcosa che non capisco. Penso voglia fare il furbo. Pochi km più avanti vedo la stessa auto parcheggiata sul ciglio della strada e i due ragazzi che stanno entrando in una casa. Senza pensarci due volte mi fermo per chiedere loro quale fosse il problema. Uno dei due mi dice che la mia ruota posteriore oscilla in modo preoccupante. Rimango senza parole. Si può perdere una ruota per strada? Non posso fare altro che proseguire preoccupatissima. Rallento la marcia, ma all’altezza di Chivasso intravedo la Basilica di Superga e il mio cuore si riempie di gioia. Castiglione Torinese è lì a pochi km di distanza e quando arrivo abbraccio Stefano, che mi sta aspettando da 3 giorni.

La mattina mi sveglio al Castello di Montaldo. Prima di fare colazione esco per vedere se Mina è dove l’ho lasciata. È immobile, sotto il suo telo, coperta da un gazebo. Il direttore dell’hotel del castello ha fatto un’eccezione nel lasciarmela parcheggiare in giardino, adibito per feste sontuose.

Stefano mi raggiunge con la sua Guzzi V7 700cc del 1968. Mi accompagna a Riva di Pinerolo per incontrare un amico sertumista. Il cielo è limpido e il sole splende. Ci concediamo una sosta alla Basilica di Don Bosco. Una benedizione può sempre tornare utile.

Continuando per la strada ci troviamo immersi tra i campi di pannocchie e di fronte a noi c’è il Monviso, che svetta e ci aspetta. Lungo la strada incontriamo due motociclisti con mezzi d’epoca. Ci salutiamo ma non ho il tempo di capire che tipo di moto hanno. Penso che in tutto il mio tragitto molti mi hanno detto di conoscere qualcuno con una moto vecchia. Eppure in giro non si incontra mai nessuno. Le moto rimangono chiuse in garage.

Arriviamo a Riva di Pinerolo. Il Signor Ferruccio Manavella ci accoglie in cortile e ci accompagna a vedere la sua collezione. Prima di andare in pensione era un carrozziere. Si capisce dall’ordine del suo garage. Le auto, le moto sono perfette e in ordine come in un museo. Ci sono due Sertum. Una VT, presumibilmente databile tra il ’34 e il ’37. Il Signor Manavella ci racconta che l’ha trovata 20 anni fa da un ferro vecchio a Villafranca e l’ha pagata ai tempi 150.000 Lire. Le ruote hanno i raggi da 21 pollici. Si presume sia una moto da corsa, ma la sua storia è sconosciuta. L’altra Sertum è una 250 VL del 1947 a spinterogeno. Al Signor Manavella è stata offerta tra decine di moto avanzate dal magazzino della Stipel, società telefonica interregionale piemontese e lombarda che operò tra il 1925 al 1964. Chissà in quante case ha portato la comunicazione quella motocicletta insieme al suo pilota.

Stefano e Ferruccio parlano di ogni mezzo esposto in quel garage. Tra commenti tecnici e piemontese stretto non capisco nulla. Ogni volta che sento parlare di meccanica, il mio cervello va in tilt, ma ascolto, sempre. È come se dovessi imparare una lingua nuova, prima o poi arriveranno i risultati, spero. Chissà.

Ferruccio ci invita in casa e chiacchierando scopro che, oltre ad essere un appassionato di motociclette, ama anche gli aeroplani e ha il brevetto di volo. È anche un musicista, suona il saxofono e il clarinetto. Ai tempi del militare chiede di andare nella banda, ma grazie al suo orecchio esperto lo spediscono nella divisione telegrafica. Si ricorda ancora l’alfabeto morse. Mi faccio subito scrivere la parola Sertum: ••• • •–• – ••– ––

È davvero una persona straordinaria, fuori dal comune, oltre che estremamente gentile e accogliente.

Stefano ed io torniamo, ci aspetta una serata speciale: un sertumista ci ha invitati a cena a casa sua. Mi sento onorata. Purtroppo sono costretta a lasciare Mina parcheggiata al Castello di Montaldo. Non mi fido a viaggiare con lei di notte, il fanale è troppo debole. Non posso immaginare come ci si potesse muovere nell’anteguerra quando i fanali avevano la candela a cera.

La serata è oltre ogni aspettativa. Giuseppe Bertino ci accoglie mostrandoci subito la sua collezione. Un garage concentrato di moto perfettamente ordinate, tra cui 3 Sertum: una 500 militare del 1940, una 250 VT4 del 1947 e una 250 VL 250 cc del 1947, esattamente come la mia Mina, ma con i colori originali. Credo che i miei occhi si siano illuminati. A guidarci nella visita ci sono i 2 figli gemelli, Edda e Aldo, di 10 anni. I “piccoli” hanno una cultura di moto che supera tutti i manuali di motoristica messi insieme: conoscono tutte le marche, i componenti, le differenze tra le une dalle altre. Hanno imparato a guidare i mezzi d’epoca a 4 anni. Sono dei fenomeni.

La cena è pronta. Roberta, la moglie di Giuseppe, ha preparato una fantastica pizza. Adoro quella fatta in casa. È una serata allegra. In giro per casa c’è la figlia più grande Magda con un gruppo di amiche. A cena si parla di moto e di avventure di motociclisti. Gli argomenti arrivano da Edda e Aldo, ne tirano fuori sempre una nuova. Mi diverto come con gli amici di vecchia data, anche se qui di vecchie ci sono solo le moto.

Oggi è un grande giorno. Mi sveglio pensando da lì a poco vedrò la Sertum Sei Giorni, SS, di cui il primo intestatario era Fausto Alberti. Sono emozionata. Parto dal Castello di Montaldo e scendo a Castiglione Torinese. Arrivo al semaforo e una signora sul marciapiede mi dice qualcosa. Non capisco e le chiedo di parlare più forte. Mina si spegne e lei urla “La tua moto sta perdendo acqua”. Acqua? Forse non ho ancora capito. Guardo sotto il serbatoio e Mina sta perdendo benzina a fiumi. Scendo velocemente e spingo la moto sul bordo della strada per metterla sul cavalletto. Vedo che la benzina esce dal bullone sotto il carburatore. Tiro fuori il beauty case di Prada con i miei attrezzi. Provo tutte le chiavi, dall’8 al 16. Mi manca la 15, proprio quella che avrebbe chiuso il bullone. Non ho tempo di imprecare. Faccio pressione con una chiave sul bullone affinché non esca ulteriore benzina e contemporaneamente chiamo Stefano, che mi dice di chiudere subito i rubinetti della benzina. Penso che ci potevo arrivare anche da sola, comunque, lui arriva in 5 minuti e stringe il bullone utilizzando la pinza che avevo con me, ma non avevo pensato di usare. In quel momento mi sento proprio una femmina, nella sua accezione più aliena al mondo della motoristica.

Nell’officina di Stefano, ad aspettarmi c’è la Sertum VT, Super Sport, del 1939. Mi pare luccichi più di un diamante. I proprietari, il Signor Carlo Ferreri è in ferie e ha consegnato a Stefano la motocicletta per mostrarmela. Suo padre l’aveva acquistata direttamente da Fausto Alberti, fondatore della Sertum. Con molta probabilità è una moto utilizzata per le competizioni di regolarità. Sono emozionata, faccio mille foto e accosto le due motociclette come se, tra le due, non esistessero differenze. Sono così orgogliosa della mia Mina, anche se discutibilmente in ordine, ma che sta viaggiando da 4 giorni, regalandomi bellissime sensazioni di libertà. Grazie a lei sono qui di fronte a uno dei mezzi che ha reso così popolare il marchio e che, forse, ha influenzato l’acquisto del parente che ha regalato la moto a mio padre.

Il Signor Ferreri lascia per me una lettera, con la storia della sua famiglia e della sua Sertum. Non ci sono parole per descriverla. Esprime il ruolo di una motocicletta e la sensibilità delle persone che l’hanno vissuta. Per quanto possa essere un oggetto, una motocicletta è parte integrante di esperienze che legano le persone alle proprie emozioni personali o familiari. E questa è una ragione sufficiente per tenerle in vita in eterno.

Vorrei restare a gustarmi questo momento di incontro, dove una Sei Giorni Internazionale incontra la mia Sei Giorni Interregionale. Ma ho appena fatto il giro di boa, devo mettermi di nuovo in viaggio verso il parmense.

Torno a Casale Monferrato, Alessandria e Cassano Spinola. Arrivo a casa delle mie cugine e nemmeno loro credono che davvero sarei riapparsa nel viaggio di ritorno: è una sorpresa anche per me.

La mattina del sesto giorno, quello del ritorno nel garage di casa, Mina non vuole saperne di accendersi. La fortuna di abitare in collina nel parmense è che una discesa la trovi sempre. Qui ho le mie cugine che mi danno una spinta. E riparto fino a Tortona, dove ho appuntamento in centro con Marcello per un caffè.

Con il suo Garelli Moschito mi accompagna fuori città e proseguo fino a Rivanazzano Terme, dove ci sono le giostre. Il calcinculo mi ricorda la mia Mina: qualche calcio te lo dà sempre prima di farti fare un giro.

Escludo la possibilità di riaffrontare il K2, il Monte Penice, e decido di raggirarlo passando dalle colline dell’oltrepò pavese. Passo da Casteggio, Montaldo, Santa Maria Alla Versa. Le stradine sono strette e piene di curve, un sali e scendi dolce tra splenditi vigneti affacciati sulla Pianura Padana.

Durante una breve salita mi accorgo di viaggiare alla velocità delle libellule. Mi volteggiano accanto, accompagnandomi per qualche metro. Finché a un certo punto, vedo in volo di fronte a me, apparentemente immobile come la pallottola di The Matrix, un calabrone. Grazie alla lentezza della mia Sertum e alla mia velocità di reazione, riesco a evitarlo.

In queste situazioni mi rendo conto che il casco jet senza visiera non è una scelta sicura. Oltretutto per una donna che mette il rossetto: i moscerini muoiono sulle tue labbra, che detto così potrebbe sembrare una cosa romantica, ma non credo che loro siano felici di fare quella fine.

In compenso la velocità della moto, almeno la mia, è sempre rassicurante. Mi rendo conto che si ha tutto il tempo di leggere i cartelli lungo la strada. Ne ho trovati alcuni davvero inaspettati, ad esempio “rallentare, in questo paese i bambini giocano ancora per strada” oppure l’incisione sulla meridiana nel centro di Varzi “non segno che le ore serene”.

Se il viaggio d’andata era una continua scoperta, il viaggio di ritorno è un ritrovamento di me stessa nel presente. Mi sento così in armonia con Mina, che ho dimenticato le mie insicurezze su di lei, ma soprattutto di me. La maggiore preoccupazione è l’avviamento, figuriamoci il resto.

Non voglio tornare a casa. Provo la stessa sensazione di quando sto leggendo le ultime pagine di libro che mi sta piacendo. Da un lato sono curiosa di sapere come finisce, dall’altro vorrei non terminarlo mai. Così leggo più lentamente. Allo stesso modo, rallento l’andatura di Mina, per quanto già sia limitata.

Scesa dalle colline mi ritrovo in pianura, tra i campi coltivati, fino al Castello di Rivalta. Mi fermo per una visita. L’interno del complesso fortificato è deserto. Non ho scuse per trattenermi. Arrivo a Castell’Arquato. Faccio una sosta e chiamo mio padre. Gli confesso che sono stanca. In effetti oggi ho percorso più km degli scorsi giorni. Lui mi incoraggia a resistere fino a casa. Marcano 60 km. Forse semplicemente non ho voglio tornare. Entro in una bottega, compro un trancio di pancetta da affettare, come incentivo per arrivare a casa. E funziona.

A casa Mina torna in garage. Ma solo per qualche ora, perché il giorno seguente sono già in sella per una nuova gita giornaliera tra le mie colline.

Le motociclette d’epoca non possono vivere recluse in garage, come fanno i sogni nel cassetto. Lì ammuffiscono e fanno la ruggine. Meglio portarle in giro, per sentire quelle emozioni che altrimenti andrebbero perse, come un passato dimenticato.


Itinerario – 883 km

Giorno 1 – da Calestano (PR) a Bobbio (PC), passando dai centri storici di Salsomaggiore Terme, Castell’Arquato, Grazzano Visconti, la Val Nure e Val Trebbia. 153 km
Giorno 2 – da Bobbio a Cassano Spinola (AL), tra Varzi, San Sebastiano Curone, Tortona e pernottamento dalle mie cugine Valentina e Giuliana. 86 km
Giorno 3 – da Cassano a Montaldo Torinese, passando da Alessandria, Casale Monferrato e la Val Cerrina. 138 km
Giorno 4 – da Montaldo Torinese a Riva di Pinerolo e ritorno. 146 km
Giorno 5 – da Castiglione a Cassano. 151 km
Giorno 6 – da Cassano a Calestano. 209 km