Mina vagante

Improvvisare un viaggio alla ricerca di sertumisti in giro per l’Italia. Ciò che può accadere è imprevedibile, soprattutto in sella a una Sertum di nome Mina. Emilia, Veneto, Trentino, Friuli. 4 regioni, 6 giorni, 830 km.

Sono le 9,30 di sera e ancora non ho preparato la borsa. Vorrei partire domani, ma non so bene dove andare. A differenza del mio primo viaggio in solitaria di sei giorni, stavolta non ne ho parlato in giro. Preferirei evitare programmi e aspettative. Mi è già andata bene una volta, vuoi che funzioni ancora?

Una prima idea era quella di fare un itinerario tra le colline toscane. In zona c’è un Sertumista che conosco, gli scrivo un paio di messaggi ma non risponde. Forse non ha gradito il mio autoinvito oppure non ha tempo da perdere. Quindi parlo con il mio amico Stefano Pracca che mi dice: “Perché non vai a trovare Aldo? È sicuramente felice di vederti.” Aldo Damin è un appassionato di Sertum, l’ho conosciuto ai mercatini di Imola e Reggio Emilia. Al suo banco c’è una sfilata di Sertum difficili da non notare. Abita a Feltre, in provincia di Belluno. Sono meno di 300 km e ho sei giorni a disposizione. Prima o poi ci arrivo, penso. Lo chiamo e mi comunica che venerdì sera partirà per la Croazia. Oggi è mercoledì, mi devo sbrigare. Mai una volta che si possa viaggiare in santa pace a 40 km/h. Dovrò tirare fino ai 50 o 55 stavolta.

Mina è pronta. Ho trascorso tutta la giornata in officina dall’amico Giovanni: abbiamo cambiato la marmitta, sostituito il getto e controllato il carburatore. Parlo al plurale, perché Giovanni ha lavorato e io ho guardato. Dopo alcune prove sulla strada in salita che porta al Castello di Felino, nel Parmense, abbiamo constatato che Mina è leggermente più lanciata. Lui è scettico sul fatto che la moto sia in ordine, ma ha fatto il possibile nel tempo a disposizione e io voglio partire. Le salite ancora mi spaventano, ma non mi farò fermare dalle mie paure. Ho superato il passo Penice a Ferragosto. Posso affrontare la Pianura Padana e qualche salitina in un mese più mite come quello di aprile.

Sono pure attrezzata di visiera sul casco:
nemmeno i calabroni e i moscerini mi fermeranno.

Parto alle 8:30, passo davanti al benzinaio del mio paese e lo saluto, come faccio ogni volta durante i miei giretti vicino a casa. Lui mi sorride. Il pieno è stato fatto, ci ha pensato mio padre, sapendo che ero rimasta a secco a 5 km da casa due giorni prima. Non tutti i mali vengono per nuocere: Stefano e Clara sono venuti a soccorrermi e mi hanno pure invitata a cena.

Ogni volta che rimango a piedi senza benzina penso che Mina non mi meriti.
Eppure continua a sopportarmi e a guidarmi dove mi porta il cuore.

Mi dirigo a Brescello, scendo le colline passando per le stradine a una sola corsia della Bassa fino a raggiungere gli argini delle golene del Po. In paese c’è il mercato. La temperatura è calda, le donne portano già i vestiti in lino, mentre io ho gli scarponi invernali: fanno caldo, ma mi sento più sicura per l’avviamento della moto.

Ricordo le prime volte che usavo Mina: non potevo fermarmi, avevo paura che si spegnesse e di non essere più in grado di accenderla. Mi era impossibile credere che un giorno sarei stata libera di avviare e spegnere la moto in qualsiasi momento. Ci ho messo un anno e mezzo a conoscerla. Credo di averla presa per sfinimento. Ogni volta la stessa storia: scalcia, sembra di non volerne sapere di portarmi in giro e io non la lascio stare, finché mi accontenta. Ma con lei le scarpe hanno le ore contate. Ne ho forate due paia con il cavalletto e una volta è volato un tacco di una scarpa Pollini, stile Church, durante la fase di avviamento. Da allora i boot della Timberland sono i miei migliori alleati, anche d’estate.

A Brescello, quando parcheggio si avvicinano due ambulanti a curiosare e a fare due chiacchiere. Ma non mi sento molto bene e mi dirigo verso un bar. È facile pensare che la vita di una donna motociclista sia facilitata, perché le persone si mostrano più socievoli e disposte a dare una mano nei momenti di difficoltà. Forse è vero, ma è anche vero che le donne partono in svantaggio sull’apprendimento della meccanica. Bella scusa. Su questo punto potremmo anche impegnarci di più. Quindi l’unica vera differenza che non si può negare è che le donne possono avere una colica mestruale, tanto quanto gli uomini possono soffrire di prostatite. Ma la mia sofferenza è capitata a due ore dalla partenza. Se pensavo che solo Mina potesse darmi dei problemi, in quel momento mi sono ricreduta. Per fortuna siamo nel 2018 e le farmacie sono sempre disponibili. Dopo una lunga pausa riparto per costeggiare il Mincio fino a Goito, dove faccio una sosta. Il centro è deserto ed entro in un bar. Il locale è pieno di anziani che giocano a carte e parlano in dialetto. Il portachiavi della toilette ha il logo dell’FMI.

Mi illumino e chiedo al barista dove l’ha preso. Non ne sa nulla. Anzi, sembra non capire la mia domanda, mi pare confuso. Sono così curiosa di scoprire storie di persone e mezzi d’epoca che nemmeno mi rendo conto che sto chiedendo informazioni a un barista cinese.

Riprendo il viaggio fino a Valeggio sul Mincio. Il borgo è deserto e uno spettacolo. I turisti sono tutti a prendere del fresco a Borghetto: il centro è un agglomerato di mulini affacciati sull’imponente ponte visconteo, che si specchia sul fiume.

La mia destinazione è ancora lontana. Le strade di campagna mi portano a Peschiera sul Garda, vedo il lago e passo davanti ai parchi tematici più importanti d’Italia. Gardaland, Canevaworld e Movieland hanno quello stile e dimensione tipici delle attrazioni americane: grandi parcheggi, torri fumettistiche e decorazioni al limite del grottesco. La mia Mina passa davanti agli enormi cancelli come il brutto e lento anatroccolo. Dopo pochi chilometri appare Lazise, con il suo piccolo e vecchio porto circondato da una cinta muraria collegata al Castello Scaligero del 1300. Mina è rimasta fuori dalle mura per i divieti di accesso al centro. Mi fermo pochi minuti, mi sento a disagio quando sono distante da lei, quindi torno a prenderla per raggiungere Bardolino. Qui trovo un hotel per la notte. Fuori è moderno, ma dentro una sorpresa. Il bancone della reception è realizzato con vecchie valigie, c’è una bicicletta appesa a un muro e un Ciao in un corridoio.

Supplico il ragazzo della reception di trovarmi un posto al chiuso e al coperto per Mina. Mi concede uno spazio nel garage, dove vedo stivati materassi e lenzuola: faccio finta di non vederli e prego che Mina non impregni tutto di odore di benzina.

Per viaggiare più leggera ho rinunciato alla piastra per i capelli e anche al balsamo. Non è stata una buona idea, alla fine del primo giorno ho i capelli che sembrano una ragnatela.

In centro incontro un amico di Verona che mi ha raggiunta per l’aperitivo con la sua luccicante Triumph Bonneville T100 865, personalizzata in ogni dettaglio. Potrei anche invidiarlo, se non pensassi che Mina è la moto più bella del mondo.

A cena vorrei del pesce di lago e càpito in un ristorante turistico: il lavarello che mi viene servito sembra essere finito sulla piastra da congelato. Lo so perché queste atrocità le ho fatte anch’io.

Il viaggio è partito, sono già a metà strada.

La mattina scopro che il proprietario dell’hotel è un giovane appassionato di moto e oggetti d’epoca. In un secondo hotel espone alcune motociclette datate. Non ci intratteniamo, lui ha da fare e io devo controllare l’olio prima di partire. Stavolta l’ho portato, in una bottiglia di plastica, ma lo finisco subito, mi basta appena. È venerdì, conto di trovare un’officina aperta lungo la strada.

Costeggio il lago, alla mia sinistra c’è la vastità del Garda, a destra si impone il Monte Baldo. Sopra di me il cielo di divide in due: alle mie spalle è limpido e blu, di fronte è coperto e ci sono dei preoccupanti nuvoloni che nascondono le montagne intorno al lago. Mi chiedo se mi stia mettendo nei guai. Ovviamente non sono attrezzata per la pioggia. Forse dovrei cambiare itinerario finché sono in tempo. Guardo le previsioni sul telefono: sole e nuvola. Boh. Rischio. Arrivata all’estremità del lago prendo la deviazione per Rovereto e davanti mi si presenta una salita dritta e lunga. Apro al massimo il gas e salgo in quarta, poi in terza, poi in seconda. Mina comincia a scaldarsi e io inizio a tremare. In alto ci sono dei tornanti con una vista bellissima sul lago, ma sono troppo concentrata sulla guida per gustarmi il panorama. Finalmente scollino. Tiro un sospiro di sollievo, sono fiera di Mina, le parlo e accarezzo il serbatoio. È così liscio. Penso di averlo carteggiato bene nell’officina di Chicco tre anni prima.

La statale è trafficata, al primo camion che mi sorpassa mi metto a urlare.
C’è il sole e Rovereto dista pochi chilometri. Mi dirigo dritta al Mart.

Amo molto l’arte moderna e contemporanea. Solitamente mi perdo per ore nei musei, con la musica negli auricolari, a guardare opere che spesso possono sembrare non avere un senso.

Mi folgora l’aeropittura del futurista Tullio Crali: un quadro vertiginoso, dove la modernità e il progresso incontrano la potenza dei motori. Alla Casa Depero è in corso la mostra “Animali metallici. Il culto dell’automobile nel XX secolo”. Purtroppo devo rinunciare alla visita, preferisco tornare in sella al mio cancello con due ruote, come lo chiama il mio amico Roberto. In effetti Mina è il mio cancello per il paradiso.

Arrivo quasi a Trento e devio per la Valsugana. La strada è costeggiata da vigneti e meleti. Le vette delle montagne sono striate di neve.

Il medioevale Castel Beseno, la più grande fortezza del Trentino, è arroccato su una collina e guarda Mina e me passare a fondovalle.

A Levico Terme mi fermo per far riposare Mina. In centro c’è il Festival del Latte e della Lana, con piccoli chioschi con prodotti artigianali, un’esposizione di vecchi trattori e animali in mostra. Prima di partire faccio merenda e mi ricordo che Aldo mi aveva accennato a una lunga galleria prima di arrivare a Feltre. Le gallerie mi terrorizzano: il mio fanale fa ridere e ho paura di non essere vista. Chiedo informazioni a un signore che si ferma a guardare Mina.

Mi suggerisce di prendere la vecchia strada che sale su per la montagna. In effetti è perfetta: non è troppo ripida, è deserta e posso godermi il panorama, prima di arrivare a Feltre.

In centro incontro Aldo. Dopo aver posato il bagaglio e messo al sicuro Mina, andiamo a prendere “una bicicletta”, l’aperitivo tipico della zona. Aldo mi racconta della sua vita, della sua splendida famiglia e di com’è la nata la sua passione per le Sertum. Sono felice di essere con lui. Mi racconta aneddoti che dimostrano quanto le motociclette d’epoca sappiano suscitare emozioni profonde. Un giorno ha messo in vendita una VT4 su La Manovella. Un medico l’ha chiamato per acquistarla. Quando Aldo è andato a consegnarla, ha trovato a casa del medico una fotografia grande come una vetrina: una Sertum VT4 con un asse e dei bambini seduti sopra. Uno era il padre del medico, con i fratelli. La moto è stata parcheggiata nella camera da letto e Aldo ha aiutato il padrone di casa a far passare la moto dalla finestra.

Aldo è figlio di mezzadri che erano sempre in movimento. Il suo sogno era comprare una casa. Dopo militare ha lavorato alla Fiat, poi ha aperto un’impresa che l’ha portato in giro per l’Africa e il Medio Oriente per nove anni. Ha ricordi bellissimi. Quando è tornato ha messo su famiglia, comprato casa e cambiato diverse volte lavoro. I suoi due figli sono motivo di grande orgoglio: anche loro, come il padre, viaggiatori poliglotti. Chissà se anche loro amano le Sertum. Non ho il tempo per scoprirlo, il tempo è tiranno e devo salutare Aldo mentre se ne va a bordo di una Vespa Rally 180 del 1972.

Feltre è una perla, con palazzi cinquecenteschi, facciate affrescate, bifore e poggioli rinascimentali dal richiamo veneziano.
Prima di cena parlo con i proprietari del mio caratteristico B&B d’altri tempi. Sono pieni di suggerimenti sugli itinerari da affrontare il giorno seguente. Vorrei andare alla diga del Vajont. A Erto potrei incontrare Mauro Corona. Mi dicono sia un grande maschilista. Vorrei presentargli Mina e fare due chiacchiere con lui.

La sera ceno in un ristorante tipico, poi crollo nella mia splendida camera ottocentesca.

Ho ancora quattro giorni di vacanza, finalmente posso improvvisare le mie giornate. Mi telefona il mio amico Sandro. Lui mi segnala un suo conoscente di Pordenone, che potrebbe avere contatti di sertumisti a Belluno. Dino Zanardo mi risponde al telefono, è molto gentile, ma non ha idea di chi possa andare a disturbare. Però mi invita a Cordenons, dove vive. Se cerco delle Sertum, lui ha qualche moto da farmi vedere. Dice che potrei raggiungerlo in giornata. Se voglio visitare la diga del Vajont, può venirmi incontro nel pomeriggio. Ritrovo a Barcis, in Val Cellina. È così disponibile, senza alcun preavviso, che non posso che essere lusingata dell’invito.

Mi avvio. Mi fermo in alcune officine per comprare l’olio, ma niente da fare, quello minerale è una rarità. E devo andare in Friuli per scoprirlo.

La strada che porta sulla diga è un serpente di tornanti, fino alle due gallerie naturali che si affacciano sul muro di cemento verticale a V. Impressionante. Quel muro sembra sostenere la montagna. Eppure, svalicando è chiaro il dramma accaduto nel 1963. Una sosta di riflessione è doverosa. Un venditore di libri mi spiega la dinamica dei fatti e mi mostra delle foto dell’epoca, prima e dopo il disastro. Mi sento piccola e riparto con la mia Mina. Incontro la deviazione per Casso. Mina arranca sulla salita. Arrivate quasi al paese, passiamo davanti a un’officina di mezzi d’epoca. In ordine: una Triumph Spider con tetto rigido 1500 197, una Campagnola militare AR51/59, una 600, una 500 e una Topolino Belvedere trasformata in furgoncino. Ci sono anche due uomini con la tuta da lavoro. Faccio qualche metro e mi rendo conto che la mia meta l’ho già superata. Torno indietro. C’è una signora seduta davanti a casa.

Ovviamente la “nuova” marmitta di Mina non passa inosservata. Esce di casa uno degli uomini, Walter. Gli racconto che sto arrivando da Parma e gli chiedo se posso curiosare tra i mezzi parcheggiati in strada. Poi mi viene in mente che ho bisogno dell’olio. Lui chiama il fratello Danilo, che lo recupera nella piccola e attrezzatissima officina. Faccio il pieno e rifornisco la mia bottiglia di plastica. Sono salva anche stavolta. Poi Danilo nota la mia artigianale chiave del fanale e mi dice “Aspetta un attimo”. Torna con una chiave vera, la misura, la tornisce e poi la mette al posto della mia e dice “Meglio, no?”. Mi sento viziata. Nives, una delle quattro sorelle, mi invita in casa e mi offre un panino con la “ciccia”. Non faccio complimenti, ma mi sento una bambina in quella casa, coccolata da chi ha vissuto a ridosso di un’esperienza talmente tragica che non posso nemmeno immaginare. La signora seduta fuori è la madre di Danilo, Walter, Nives e altre tre figlie. Ha 94 anni e sta selezionando i fagioli per scartare quelli con le “busche”. Cerco di non disturbare oltre, oltretutto Dino sarà già per strada.

Scendo la Val Cellina, rinunciando all’idea di passare da Erto per dirne quattro a Corona.
La Val Cellina è una poesia. Non sono mai stata in Alaska, ma la immagino così: un ambiente primordiale, incontaminato, selvaggio. Il fiume ha tutte le sfumature del ghiaccio. Le montagne ti osservano come le sfingi della Storia infinita, il cui sguardo è capace di incenerire gli eroi il cui cuore non è abbastanza puro.

All’incrocio della Val Cimoliana incontro un uomo su un cavallo di ferro, una splendida Sertum 500 conservata. È Dino Zanardo. Ha anche uno zaino con scritto “Cerco Moto Sertum”. Uno così è sufficientemente pazzo da poter diventare subito mio amico.

Facciamo una sosta sulla riva del lago di Barcis, in compagnia di una fetta di torta e di un caffè. Poi andiamo a Cordenons, mi accompagna al B&B, a due passi da casa sua, e la sera mi invita a cena. Faccio conoscenza della moglie Silvana e ho l’occasione di accedere per la prima volta a un garage completamento dedicato al mondo Sertum. Un miraggio. Praticamente tutti i modelli usciti da Viale Certosa 226, con insegne, targhe, foto, documenti, vetrinette con componenti e accessori. Un vero museo.

Dino mi mostra anche una Sertum 250 dopoguerra punzonata con il numero 53, sicuramente da competizione. Mi consegna anche una polo, un cappellino e il foulard, tutti personalizzati con il logo Sertum. Mi fa sentire parte di un club che non conosco e ufficialmente non esiste, ma che unisce delle persone all’insegna delle dimenticate Officine Meccaniche Fausto Alberti.

Prima di cena mi fa fare un giro in campagna sul sidecar: per tutto il tempo ho un sorriso inebetito stampata sulla faccia. Sono certa di aver provato quella stessa emozione che si prova da bambini quando si sale per la prima volta su una giostra.

Le storie delle moto di Dino meriterebbero un libro. La figlia si è fidanzata inconsapevolmente con un ragazzo che aveva una Sertum in garage, del padre. Ora la moto è sul banco da lavoro per la rimessa in strada. Racconto a Dino il mio progetto di scrivere un libro sui sertumisti e lui tira fuori le sue rubriche, con tutti i contatti coltivati negli anni, per passarmi i numeri.

Il B&B Kip dove soggiorno è una casa restaurata da una ragazza motociclista, che lo gestisce da sola. Rebecca non si ferma mai e ha un secondo lavoro per affrontare tutte le spese. Suo padre è un appassionato di auto d’epoca. Curiose coincidenze.

Vado a dormire, Mina è in felice compagnia.

fine

A questo punto del viaggio non posso improvvisare, devo dirigermi verso casa.
Dino si propone di accompagnarmi fino a Sacile e all’ingresso di Conegliano ci salutiamo. Lo abbraccio con tutti i buoni propositi di rivederlo presto, ma chissà.

Il Castello di Conegliano, fulcro medioevale che svetta sul Colle di Giano, è irresistibile e salgo per una visita.

Vorrei prendere la deviazione sulle colline del Montello, ma c’è una gara di biciclette in corso e alcune strade sono temporaneamente chiuse. All’altezza di Sevilla vedo il traguardo della gara ciclistica. Ai lati sono stati allestiti degli spalti, già affollati. Sembrano aspettare me. Accelero e sfreccio verso l’arrivo con la mia Mina.

Nella strada bassa si incontrano diversi monumenti ai caduti della Grande guerra, che segnano una drammatica memoria.

Sento già acclamare il pubblico, sono pronta ad alzare un braccio per salutare in segno di vittoria. Ma a 50 metri dal traguardo mi sorpassa uno scooter. Il mio sogno evapora e in quel momento capisco la discriminazione dei motociclisti verso gli scooteristi.

A Selva del Montello trovo un semaforo rosso. Scatta il verde. Tiro la leva della frizione e sento STAC. La leva della frizione parte mentre la moto resta ferma al semaforo. Accosto e metto Mina sul cavalletto. Lì c’è una signora che mi chiede se ho bisogno di aiuto, ma non conosce meccanici in paese. Oltretutto è domenica. Si agita chiedendomi come farò. Che ne so. Ma ricordo di avere il filo della frizione di scorta, grazie al Santo amico Alberto Pasi che si è raccomandato di portarlo. So che è facile cambiarlo, ma non so nemmeno da dove si inizia. Fisso Mina e la prima cosa che faccio è chiamare Dino. Gli racconto della situazione e nel frattempo arriva un’auto della polizia che si ferma al semaforo. Penso di essere salva. Gli agenti abbassano il finestrino, chiedo informazioni su un meccanico, ma rispondono che non sono della zona e l’unica cosa che posso fare è chiamare il carro attrezzi. Il carro attrezzi? Escluso. Riguardo Mina. Sono talmente impressionata da quel filo spezzato che non vedo oltre.

Accanto a me c’è l’Oratorio della Madonna della Salute. Potrei mettermi a pregare.

Distante 200 metri c’è un uomo con in spalla un neonato, mi guarda e poi entra in un bar. Ottimo! Ho proprio bisogno di un caffè. All’interno trovo una compagnia di ragazze e ragazzi, con due bebè, che stanno passando una tranquilla domenica pomeriggio insieme. Io chiedo se conoscono un meccanico. “Devi chiamare Toni il Ladro”. Andiamo bene. Non ho altra scelta. Mi faccio dare il numero. Chiamo e l’uomo risponde. Cerco di intenerire Toni, spiegandogli che ho una moto molto vecchia, che sto facendo molti chilometri e lui è la mia unica salvezza. Sento che lui sorride, ma mi risponde che è impegnato e non può allontanarsi da casa.

Vedendo la mia faccia disperata, i ragazzi al bar mi dicono di tagliare la conversazione. Hanno un altro amico che probabilmente sa risolvere la questione. Chiamano Mirco, dicendogli che lo aspettano subito. Mirco arriva dopo due minuti, inconsapevole del lavoro. Io sono felice di vederlo. Tiro fuori il filo della frizione e tutti esclamano che bastava che dicessi che ero attrezzata. In cinque minuti rimettono Mina a nuovo. Faccio una prova e la leva è tornata regolarmente a funzionare. Fantastico.

Propongo di offrire da bere a tutti, ma i ragazzi rispondono che in Veneto non conviene avere questi slanci. Comunque entriamo e tutti ordinano qualcosa, per lo più caffè. Devo averli davvero impietositi. Gli amici del Bar di Ketty mi hanno salvata dal carro attrezzi. Mi vorrei fermare con tutti loro, ma sono in ritardo sulla tabella di marcia.

Mirco va a prendere la sua Yamaha XTZ 750 Super Ténéré del 1989 e mi accompagna un tratto.

Andiamo a Villa di Maser, dove arriva una sfilata di auto d’epoca che parcheggia nel parco. Un doppio spettacolo per gli occhi.
Arriviamo ad Asolo, consacrato uno dei borghi più belli d’Italia. Scelgo un albergo centrale. Ringrazio Mirco per il suo prezioso aiuto e la pazienza nell’assistermi mentre prego il concierge di trovare un posto al coperto per Mina. Addirittura viene scomodato l’assessore di Asolo, che è così gentile da mettermi a disposizione un angolo del suo garage. Scopro che anche lui ha un debole per gli oggetti e mezzi d’epoca.

Prima di cena mi concedo un aperitivo. In Veneto uno spritz è doveroso. È l’occasione per conoscere un’eccentrica signora, che mi racconta la sua vita e dichiara di essere una veggente. Lascio che si perda in chiacchiere con altre persone del bar. Più tardi faccio conoscenza con una piccola compagnia di ragazzi, tra cui scopro la nipote dell’assessore. Alcuni di loro vanno a mangiare una pizza e mi invitano. Accetto. Uno dei ragazzi è particolarmente spiritoso, anche troppo, ci tiene a coinvolgermi nelle conversazioni. Mi chiede perché i miei genitori hanno scelto il nome Benedetta. E io gli rispondo che avrei voluto chiederglielo di persona, ma sono stata adottata, quindi ho perso traccia di loro. Non la tiro tanto per le lunghe, ha abboccato e dopo cena mi dileguo in hotel.

Da Asolo mi dirigo a Possagno, al Tempio del Canova, un’imponente costruzione neoclassica dei primi dell’Ottocento, con una splendida vista sulla vallata. Il lunedì purtroppo è chiuso.

Tengo la strada sotto il Monte Grappa. Uno scooterista mi lampeggia con gli abbaglianti. Strano, penso, ma saluto, nonostante i precedenti con la categoria. A Crespano del Grappa mi fermo per una foto davanti allo storico municipio. Scendo dalla moto e noto che la mia borsa sul portapacchi è tutta sbilenca. Non ho assicurato le cinghie come avrei dovuto e queste hanno svolazzato con il rischio di finire nella ruota posteriore. Mi tremano le gambe. Attraverso la strada e vado nella Chiesa di piazza San Marco ad accendere una candela per la grazia ricevuta.

Sulla strada verso Bassano incontro una segnalazione per il Museo dell’Automobile Bonfanti-Vimar. È chiuso. Il lunedì è proprio un giorno disgraziato anche in vacanza.

A Bassano Mina non può avvicinarsi al centro, quindi proseguo fino a Marostica, dove mi fermo per pranzare nella Piazza degli Scacchi, poi non resisto a salire al Castello Superiore. La vista è mozzafiato. Sulle strade venete le ville spuntano come funghi. A destra, a sinistra, non so dove guardare. Passare davanti agli ingressi signorili con una moto d’epoca è come entrare nei meandri di quei tempi sfarzosi, che mettevano soggezione alla povera gente. Oggi sono quasi invisibili agli occhi di tutti, con suv, utilitarie e auto moderne.

Arrivo a Lonigo. Sono le 17 e alle 19 conto di arrivare a Legnano. Chiamo un amico che abita in zona per chiedergli una dritta sul pernottamento. Mentre sono al telefono seduta su Mina, una signora elegante mi gira attorno. Sono sospettosa, non ho mai trovato una donna interessata alla mia moto. Chiudo la conversazione e lei mi sorride. Iniziamo a chiacchierare. È attratta da Mina perché suo marito aveva la passione per le moto d’epoca. Maria Pia è molto gentile e sarebbe entusiasta di farmi visitare Lonigo, vorrebbe portarmi alla Rocca Pisana, dov’è cresciuta. La villa è stata progettata da Vincenzo Scamozzi, importante allievo di Palladio, nel 1576. La famiglia di Maria Pia era custode della villa. Lei è piena di bellissimi ricordi, che mi racconta con gli occhi lucidi. Poi arriva una sua amica, che vorrebbe farmi visitare il teatro.

Purtroppo non ho abbastanza tempo a disposizione. Propongo un caffè per sdebitarmi delle loro attenzioni. Dovrò tornare.

Arrivo a Legnano. Il mio amico Alessandro, che avevo conosciuto in un viaggio con Avventure nel Mondo alle Isole Andamane, mi viene incontro sulla sua Vespa PX 125 del 1983.

A casa ha anche una Primavera 125 ET3 blue marine del 1981, che tiene in salotto. Mi accompagna al B&B Dormire al Fiume, davvero sul Po. L’alloggio è caratteristico e i proprietari estremamente cordiali. Mi permettono di parcheggiare Mina in garage, accanto al primo modello di Ciao uscito dalla Piaggio nel 1967.

La sera sento al telefono mio padre che mi mette in guardia sulle condizioni meteo. Il tempo va di pari passo con il mio umore: è prevista pioggia nel pomeriggio, quando si presume arriverò a casa.

Parto la mattina presto.
Le mie mani sono indolenzite. Sulla mano destra ho qualche callo. Ma della sinistra sto perdendo le funzionalità. La leva della frizione è dura come il ferro rinforzato del serbatoio della mia Mina. Si piega a stento. Devo stringere le ginocchia al serbatoio per aiutarmi con i reni e così scaricare la massima forza sulla mano che stringe la leva sinistra. Forse non è normale, penso. Forse il filo della frizione si romperà nuovamente. Chiamo Mirco che mi ha montato il filo: dice che andava ingrassato e probabilmente fa aderenza dentro la guaina. Quindi devo solo resistere fino a casa. 

Ad ogni viaggio Mina mi lascia dei bellissimi ricordi nel cuore, ma anche qualche segno sul corpo: ho anche diversi lividi sul polpaccio destro, per via dell’avviamento.

Sono quasi a Gonzaga, dov’è in corso uno dei mercatini d’antiquariato più importanti del Nord Italia, quando, dietro una curva, mi trovo i carabinieri. Mi fermano. Chiedo: “Andavo troppo forte?”. L’agente non si scompone, osserva il mio mezzo e mi chiede i documenti. Li guarda. È la prima volta che mi capita. Spero non ci siano sorprese. “L’hanno mai fermata?” mi chiede l’ufficiale. Rispondo “C’è qualcosa che non va?”. “No. Può andare”. Mi stava prendendo un colpo. Se mi sequestrano Mina devono portare via anche me.

A Gonzaga visito il mercatino. Mina rimane parcheggiata vicino a uno degli ingressi del centro. La lego con la catena a un palo, perché nessuno più dei presenti può capire quanto sia attraente un oggetto del passato. Sono così attaccata a lei. Ho sempre pensato che non ci si possa innamorare di un oggetto. Si può essere affezionati, lo si può considerare speciale, ma dire di essere innamorati mi sembra troppo. Eppure, io me la sogno di notte.
Ad esempio, ho sognato che mi stavo trasferendo a New York. Era tutto pronto. La mia famiglia sarebbe venuta con me. Il lavoro era garantito, avevo la casa e il viaggio organizzato. Fantastico, il sogno americano! Poi penso che devo lasciare a casa Mina ed entro in confusione, mi si stringe il cuore a partire. A quel punto mi sveglio e penso: “Per fortuna era solo un brutto sogno, non devo andare a New York e posso stare a casa con la mia Mina”. Da questo sogno capisco che dovrei andare seriamente in analisi.

A Parma comincia a piovigginare. L’acqua cade piano e delicata, come il ritmo del mio viaggio fino a Calestano.

Lungo il tragitto penso di aver visto davvero poche moto d’epoca per strada: due Morini, una Laverda, una Lambretta, un gruppo di vespisti a Brais e un Aquilotto.

Mina finisce subito in garage. La gita è terminata e io devo tornare alla mia routine. Da Calestano in serata mi sposto a Milano e sono triste. Mentre sono a casa nella metropoli, guardo sul computer il mio archivio fotografico per cercare una foto d’epoca con una Sertum e il numero 53. A un certo punto ricevo una chiamata. È Loris, un sertumista della provincia di Verona. Mi ero dimenticata di avergli lasciato un messaggio nella segreteria telefonica due giorni prima. Il suo numero mi era stato dato da Dino.

Dopo essermi presentata, chiacchieriamo più di mezz’ora. Lo avviso che mi autoinviterò da lui.
Nel frattempo penso al prossimo weekend e a dove andare con Mina. Non vedo l’ora.

Viaggiare con lei è come giocare a Monopoli. Si può capitare sulle “probabilità” o sugli “imprevisti”. Stavolta ho anche evitato la prigione. Comunque penso che l’unico imprevisto l’abbia pescato Mina quando ho messo gli occhi su di lei, che dormiva da più di 40 anni in garage. Le sorprese e le emozioni che mi regala sono straordinarie e sono accessibili a tutti coloro che amano guidare una due ruote arrugginita a 50 km/h.


Itinerario – 831 km

Giorno 1 – Da Calestano (PR) a Bardolino (VR), direzione Brescello, Valeggio sul Mincio, Borghetto fino al Lago di Garda – 153 km
Giorno 2 – Da Bardolino a Feltre (BL), con sosta a Rovereto, Levico Terme e lungo la Valsugana – 164 km
Giorno 3 – Da Feltre a Cordenons (PN), con visita alla diga del Vajont, a Casso e alla scoperta della Val Cellina – 127 km
Giorno 4 – Da Cordenons ad Asolo, tra Sacile, Conegliano, il Montello e qualche inconveniente – 86 km
Giorno 5 – Da Asolo a Legnago, verso Lonigo e in mezzo alla Pianura Padana – 160 km
Giorno 6 – Da Legnago a Calestano, lungo le rive del Po e passando dal mercatino dell’antiquariato di Gonzaga – 141 km